sabato 11 aprile 2020

step #08 Sovrastruttura intellegibile dell'Iperuranio

Platone, scuola di Atene di Raffaello
A conclusione delle riflessioni (post 'Riflessioni di percorso') riguardo a quelli che, secondo Heidegger, sono stati gli inevitabili effetti della Metafisica di Platone, ovvero l'emergere dall'ente di una nuova consapevolezza dell'essere umano di essere portatore di un progetto di padroneggiamento conoscitivo e quindi operativo di tutto ciò che è, mi soffermo nell'analisi della natura di questi due mondi separati e inconciliabili, la cui trattazione da parte di Platone compare in particolare nella Repubblica e nel Fedro. A parere del filosofo novecentesco questa separazione del mondo intellegibile da quello sensibile avrebbe segnato l'inizio di una lunga tradizione metafisica che giunge fino a Nietzsche e all'epoca della Tecnica e che avrebbe in qualche modo legittimato il dominio dell'uomo su una Natura che è ridotta a 'ente'. L'Essere infatti non sarebbe che oggetto di reminiscenza da parte di alcune anime umane, quelle che in origine riuscirono a contemplare al di là del cielo le Idee pure. La dimenticanza dell'Essere, l'Oblio dell'Essere allora è forse stato provocato dalla convinzione della cultura occidentale, erede diretta dell'episteme greca, che esso risieda altrove, lontano dalla portata dei nostri sensi. La Natura non è che imitazione di una controparte perfetta e, come tale, è resa oggetto del dominio umano, conoscitivo e manipolativo. Una tale divisione verrà ripresa, dopo il neoplatonismo, dalla lunga tradizione cristiana, ma questa è un'altra storia che comunque serve a sottolineare il concetto.
Platone espone la dottrina dei due mondi a più riprese nei suoi Dialoghi, essendo essa centrale al suo pensiero: nel libro decimo della Repubblica, nel corso di un dialogo tra Glaucone e Socrate, si riflette su cosa sia la Verità in contrasto con l'imitazione che è propria di arti come la poesia, la tragedia, la pittura.

«Prendiamo anche ora un oggetto qualsiasi tra i tanti. Ad esempio, se ti va bene, esistono molti letti e molti tavoli». 
«Come no?»
 «Ma questi oggetti si possono raggruppare in due idee, quella di letto e quella di tavolo».
 «Sì».
 «E non siamo anche soliti dire che l'artefice di ciascuno dei due oggetti guarda all'idea per fabbricare l'uno i letti, l'altro i tavoli di cui noi ci serviamo, e lo stesso vale per ogni altro oggetto? Nessun costruttore infatti realizza l'idea in sé: come potrebbe?»

Dunque l'imitazione realizza apparenze, non dotate di alcuna realtà effettiva e molteplici, in quanto copie delle Idee, uniche e immutabili. E nelle seguenti battute, tratte dal dialogo, tali affermazioni vengono argomentate con l'arguzia tipica del Socrate platonico, instillatore di dubbio.

«Ma se non realizza l'essenza, non potrà creare la realtà, bensì solo qualcosa che assomiglia alla realtà, ma non la è; e chi dicesse che l'opera del costruttore di letti o di un altro artigiano è compiutamente reale non correrebbe il rischio di non dire il vero?» 

«Ben conscio di questo, penso, il dio, volendo essere il reale creatore di un letto reale, non un costruttore qualsiasi di un letto qualsiasi, lo creò per natura unico».  

«Vuoi dunque che lo chiamiamo naturale creatore di questo oggetto, o con un termine simile?» «è giusto», rispose, «perché ha creato questa e ogni altra cosa secondo natura». 
«E il falegname? Non lo chiameremo artefice del letto?» «Sì». 
«E non chiameremo anche il pittore artefice e creatore di quest'oggetto?» «Nient'affatto! ». 
«Ma allora quale rapporto avrà, secondo te, con il letto?» «Mi sembra», rispose, «che la definizione più appropriata sia questa: imitatore dell'oggetto di cui gli altri due sono artefici».  

Ma la dicotomia tra questi due mondi spiegherebbe a parere di Platone le inclinazioni, seppur a livelli diversi, dell'animo umano verso qualcosa che egli sente trascenderlo, la cui natura rimane celata e inafferrabile. L'anima umana infatti potè contemplare alle proprie origini la sovrastruttura del reale, ovvero il mondo delle Idee, e in quanto immortale e quindi eterna, essa è la parte dell'uomo a essere simile alla sostanza di quel mondo. Entrambi infatti hanno in se stessi il proprio principio motore e non essendo mossi da cosa esterna, sono origine del proprio movimento e per questo non possono cessarlo. Essendo dotata di ali, l'anima potè levarsi al cospetto degli dei e dalla loro prospettiva lanciare lo sguardo oltre il cielo, ma, non riuscendo sempre a tenere dietro al proprio dio, riempitasi di oblio e ignavia a causa del proprio peso cadde in terra e trovò albergo in un corpo sensibile con una particolare propensione e carattere a seconda del tempo che passarono a rimirare le Idee. A seconda del grado di percezione e sensibilità un'anima può ricordare quest'antica visione e non appena ritrova in terra una copia di essa, la venera come un dio. Esempio portato nel Fedro da Platone è il caso in cui un'anima che abbia contemplato la Bellezza, somma tra le idee, riesca a riconoscerla in quanto la vista è la più vivida tra le sensazioni umane. L'anima allora, ricavuto attraverso gli occhi il flusso della bellezza, prende calore là dove la natura dell'anima si abbevera e germoglia. Questo è l'effetto di Eros che i mortali non a caso, riporta Platone, chiamano Eros alato e gli immortali Pteros, perchè fa crescere le ali. L'anima riconoscendo le copie di quelle Idee sovrasensibili si avvicina alla loro perfezione e solo in un al di là, liberatasi dalle catene del corpo, potrà contemplarle nella loro purezza. In conclusione alla descrizione nel Fedro della biga alata condotta da un auriga che si trova a dover mediare tra i temperamenti opposti dei propri destrieri, l'uno attratto dal mondo sensibile e l'altro dal mondo perfetto delle Idee, Platone accentua la dicotomia esistente tra queste due dimensioni, la struttura sensibile del reale e la sovrastruttura immateriale e eterna del mondo delle Idee:
[...]uno, al vedere la bellezza di quaggiù, ricordandosi della vera bellezza mette nuove ali e desidera levarsi in volo, ma non essendone capace guarda in alto come un uccello, senza curarsi di ciò che sta in basso, e così subisce l'accusa di trovarsi in istato di mania: di tutte le ispirazioni divine questa, per chi la possiede e ha comunanza con essa, è la migliore e deriva dalle cose migliori, e chi ama le persone belle e partecipa di tale mania è chiamato amante. Infatti, come si è detto, ogni anima d'uomo per natura ha contemplato gli esseri, altrimenti non si sarebbe incarnata in un tale vivente. Ma ricordarsi di quegli esseri procedendo dalle cose di quaggiù non è alla portata di ogni anima, né di quelle che allora videro gli esseri di lassù per breve tempo, né di quelle che, cadute qui, hanno avuto una cattiva sorte, al punto che, volte da cattive compagnie all'ingiustizia, obliano le sacre realtà che videro allora. Ne restano poche nelle quali il ricordo si conserva in misura sufficiente: queste, qualora vedano una copia degli esseri di lassù, restano sbigottite e non sono più in sé, ma non sanno cosa sia ciò che provano, perché non ne hanno percezione sufficiente. Così della giustizia, della temperanza e di tutte le altre cose che hanno valore per le anime non c'è splendore alcuno nelle copie di quaggiù, ma soltanto pochi, accostandosi alle immagini, contemplano a fatica, attraverso i loro organi ottusi, la matrice del modello riprodotto.

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